martedì 2 agosto 2011

Mi chiamo Luna e sono un clown…."strategia dell'umorismo".

Un anno fa circa, tra le corsie dell’Ospedale pediatrico “Di Cristina” a Palermo, ho iniziato un nuovo percorso che mi ha portato a ridimensionare quella che è la figura del clown, o meglio del mio clown, nulla era programmato, non sapevo a cosa mi avrebbe portato quest’esperienza.

Tenendo conto dell’importanza della salute mentale del bambino in ospedale e quanto il ricovero possa essere traumatizzante per l’utente che si prepara ad affrontare un percorso di cura, vorrei soffermare l’attenzione, in particolar modo, sul reparto di Onco-Ematologia pediatrica, in vista dell’indagine pilota condotta personalmente.

L’esperienza maturata nel reparto di Onco-Ematologia Pediatrica ha posto degli interrogativi importanti ai quali questo studio ha cercato di trovare delle prime risposte.

Il contesto molto particolare e delicato di questo Reparto, in un certo senso diverso da tutti gli altri, lo propone come uno dei luoghi più difficili e complessi.

Si tratta di un ambiente in cui lo scenario emotivo con il quale si entra in contatto sottolinea da subito un costo psicologico elevato, non solo per il bambino, ma anche per l’intero nucleo familiare che è costretto a rompere ogni sorta di equilibrio precedentemente acquisito per cercare, nel migliore dei casi, di adattarsi e gestire al meglio la situazione estremamente stressante che si è presentata; la degenza dei bambini prevede un arco di tempo molto lungo, il rapporto con la malattia viene più enfatizzato, proprio perché si tratta di patologie più gravi che richiedono procedure più invasive.

Per tutti questi motivi, è nata in me la curiosità e l’interesse, rispetto all’esperienza che avevo vissuto fino a quel momento, di andare a vedere più da vicino come dei soggetti che vivono un evento così particolare gestiscono la “strategia dell’umorismo”, e come la figura del clown dottore, in un luogo come questo, può svolgere, nel migliore dei modi, il proprio intervento in modo terapeutico.

Questo lavoro, durato circa 9 mesi, è nato come Indagine Pilota e ha previsto il solo gruppo sperimentale formato da 20 soggetti, selezionati direttamente dal personale ospedaliero con cui ho collaborato fin dall’inizio del progetto. Il numero limitato dei soggetti che compongono il gruppo coinvolto è stato voluto, poiché l’obiettivo di questa indagine, nel tentativo di essere realmente terapeutica, è stato quello di instaurare un contatto, un rapporto di conoscenza e di fiducia con i destinatari, tappa essenziale in un reparto come l’Onco-Ematologia Pediatrica, per evitare che alla terapeuticità dell’umorismo corrisponda poi un “sorriso forzato”.

L’indagine qui presentata costituisce un contributo, basato sull’uso di questionari, volto a cogliere il ruolo dell’umorismo in relazione all’ansia delle mamme e alla loro capacità di usare la comicità come risorsa nella gestione di situazioni stressanti. Proprio le mamme in questo Progetto Pilota, hanno svolto l’essenziale ruolo di “mediatrici”, poiché spessissimo si entra in relazione col bambino attraverso il genitore. Infatti il sorriso o la risata di quest’ultimo predispone il bambino all’apertura di un contatto.

Lo strumento scelto per raggiungere le finalità dello studio è stato lo ZIV, che è uno dei primi strumenti elaborati per misurare specificamente il senso dell’umorismo, indagando sia l’apprezzamento che la creazione dell’umorismo. Esso è formato da 14 voci, di cui 7 miranti a valutare l’apprezzamento e le rimanenti 7 la creatività, la loro somma fornisce un punteggio globale di “inclinazione” all’umorismo. Si tratta di un questionario di auto-valutazione rispetto al proprio modo di intendere l’umorismo e di adoperarlo nella vita; quest’ultimo si propone non solo come distrazione, condizione di gioco, ma come una concreta modalità, una tecnica, che ha lo scopo di alleviare il controllo e la tensione del contesto.

Il gruppo di riferimento a cui è stato somministrato gradualmente tale questionario è stato composto dagli stessi soggetti su cui già da tempo alcuni psicologi portavano avanti una ricerca attraverso lo STAI e il COPE, test utilizzati per la valutazione dell’ansia e delle strategie di coping della famiglia durante i differenti momenti del percorso di cura dei bambini ospedalizzati.

Nella fase iniziale del Progetto Pilota è stata compilata, con l’aiuto del personale ospedaliero, la raccolta dei dati anagrafici del bambino e della madre; a seguire, durante il periodo di analisi, si è focalizzata l’attenzione sullo scopo di instaurare buone relazioni con il nucleo familiare del bambino ospedalizzato, partecipando in un primo momento alle attività della ludoteca, affiancando gli psicologi nei loro incontri con le madri e i piccoli degenti.

In seguito, dopo questa prima fase di conoscenza e familiarizzazione, presentando e spiegando l’intera Indagine Pilota, si è cercato di condurre personalmente degli incontri diretti con madre e bambino, svolgendo il tipico intervento di clown-terapia nelle stanze di degenza, nell’androne del reparto dove è stata allestita la sala giochi per i bambini e, ove richiesto, durante il trattamento clinico.

Nella fase finale, le madri, che compongono il gruppo coinvolto, sono state informate sull’utilità e le finalità dello strumento di riferimento che andavano a compilare.

Lo ZIV è stato somministrato singolarmente ad ogni madre, durante l’intervento di clown-terapia con il proprio figlio e infine, sono stati raccolti i dati del COPE e dello STAI, somministrati dagli psicologi.

Seguendo i dati, nel COPE, delle strategie di coping più utilizzate nel gruppo di riferimento, in linea con le diverse ricerche che, in letteratura, hanno affrontato la stessa tematica in un reparto come l’Onco-Ematologia Pediatrica, quelli più utilizzati per far fronte alla situazione “malattia” sono il Supporto sociale e le Strategie focalizzate sul problema. Queste, quindi, vengono maggiormente usate per gestire principalmente i concreti problemi legati agli effetti collaterali dei farmaci e per riorganizzare le risorse di un intero nucleo familiare allargato che ruota attorno al piccolo degente.

In questo questionario, l’utilizzo dell’umorismo, nel cercare una soluzione al problema, è risultato essere molto scarso. L’umorismo, quindi, inteso come “prendersi gioco della situazione” o “riderci sopra” (secondo il significato che ne viene dato nella descrizione dello strumento) non è stato utilizzato come strategia per fronteggiare la situazione stressante nel gruppo coinvolto.

Mettendo questo dato in relazione con quanto emerso nello ZIV, si osserva che, alla domanda “le capita di ridere in situazioni che vengono ritenute serie?”, il 68% dei soggetti testati ha risposto di “no”. Si può, in un certo senso ipotizzare che sicuramente l’umorismo non deve essere utilizzato quale strategia per affrontare il problema.

Dai risultati di questa piccola indagine è emerso, però, che l’umorismo, nel questionario dello ZIV, ha ottenuto un risultato interessante.

Nella variabile “creazione dell’umorismo”, che di norma risulta essere inferiore a quella “apprezzamento dell’umorismo”, coerentemente con la diffusa osservazione che è più facile apprezzare che fare dell’umorismo, i soggetti hanno, invece, ottenuto un punteggio leggermente superiore al risultato della seconda variabile.


L’umorismo viene, quindi, utilizzato per gestire, attenuare, calmare il livello di tensione, l’attenzione sia mentale che fisiologica, l’eccessivo controllo del proprio Sé e della situazione.

La stessa elevata tensione, preoccupazione, livello di ansia, è stata misurata attraverso lo STAI, dove l’Ansia di stato è risultata, logicamente, molto più alta, in media, rispetto al tratto della persona. Qui il risultato rispecchia, in un certo senso, la situazione di forte ansia vissuta dal genitore durante il percorso di cura del bambino.

Per tutti questi motivi, seguendo le osservazioni fatte in un contesto come quello dell’Onco-Ematologia Pediatrica, l’utilizzo di tecniche di clownterapia, di gioco, non dovrebbero avere, in questo luogo ben preciso, la tendenza ad essere utilizzate con il semplice scopo di divertire, distrarre, come tipicamente succede negli altri reparti, ma al contrario dovrebbero essere utilizzate con la finalità, la modalità precisa di andare ad alleviare l’elevata tensione attraverso il movimento, la risata, con l’obbiettivo di alleggerire il livello di ansia dato dall’ambiente e dalla situazione stressante.

Si tratta pur sempre di una tecnica legata alla relazione che viene instaurata con il paziente e con l’intero nucleo familiare, tenendo conto dell’importanza di stabilire prima quel rapporto profondo, di fiducia, che sta alla base di ogni intervento che vuole, attraverso l’umorismo, essere realmente definito terapeutico. I dati ottenuti affermano, infatti, come l’umorismo, seppur non utilizzato qui come “strategia prima” per risolvere il problema, viene comunque usato moltissimo per la gestione della quotidianità, dello stato d’animo, delle relazioni, durante il lungo periodo di cura, che per sua natura, allontana i bambini dal loro ambiente sereno e giocoso.

Grazie a questo lavoro ho potuto constatare quindi che la presenza del clown in reparto agisce positivamente sullo stato d’ansia e depressione sia dei bambini che dei loro genitori; rende più accettabile la terapia e più sereno e gradevole l’ambiente ospedaliero, poiché i prodotti della fantasia che il clown, con professionalità, riesce a far emergere in un contesto come l’ospedale, diventano il tramite per liberare timori e aggressività, per dar vita a momenti di socializzazione, di aggregazione e di ascolto.

Infine, vorrei condividere con voi la parte più nascosta di questa esperienza, quella vissuta col cuore di un clown. A riguardo, vorrei riportarvi un passo del diario di bordo scritto durante questa straordinaria esperienza.

Mi chiamo Luna e sono un clown... “dottore”...

Rifaccio gli stessi passi, ne sento ancora il rumore e rivedo il ciglio di una strada, la stessa, identica, strada che percorro da quattro anni.

E’ un viaggio il mio, così amo definirlo. Un viaggio che mi ha portato a vedere, conoscere luoghi e mondi mai pensati, storie silenziose e sconosciute che riportano agli albori delle emozioni, quelle emozioni non pensate, non intaccate dalla ragione e dal buon senso, prive di matura dolcezza, disincantate. Emozioni appena assaporate in tutta la loro acerba bellezza, nella loro disarmante semplicità.

Tutto era dentro di me ma non lo sapevo, o meglio, l’ho sempre cercato al di fuori, negli occhi che incontravo, nelle parole che sentivo, nelle mani che timidamente stringevo. E mi aggrappavo fortemente a quei muri costruiti di illusoria conquista, di mancata consapevolezza e forza, e ci credevo.

Credevo che il mondo mi avrebbe dato risposta, che qualcosa, prima o poi, sarebbe accaduto perché così era stato scritto.

Avevo creato la mia corazza, fatta di convinzioni e credenze forti come castelli di sabbia. Mi cullavo in questa apparente protezione.

Non riuscivo a vedere oltre, la mia mente era come rapita dai miei stessi pensieri, ed io c’ero cresciuta con quei pensieri. Mi dicevo sempre che ce l’avevo fatta, che io ero sopravvissuta, perché ero forte, coraggiosa. Nella mia leggera pesantezza, mi sentivo libera, mi sentivo una persona viva.

Ad oggi posso dire, con certezza, che non ero niente di tutto questo. Ero solo una ragazzina come tante, caduta nel pozzo dei suoi ricordi, un buco grosso e buio dal quale non percepivo altro che buio, talmente concentrata a guardarmi dentro da non vedere a un palmo dal mio naso.

Quando passi tanto tempo dietro alla tua stessa ombra che ti insegue, dimentichi tante cose, dimentichi il colore della tua vita, il profumo degli abbracci in cui sei cresciuta, il suono delle parole che ti hanno forgiata, quelle mani calde e premurose che ti hanno sostenuta nel tempo, e ancora il pane caldo alla sera, gli incontri notturni in cucina tra risate e tazze di the, le corse a piedi scalzi sull’erba fresca e le sere insonni a guardare le stelle, a parlare della vita e di come sarebbe cambiata.

Di colpo tutto si tinge di scuro, anche quelle immagini, talmente pure e belle, perdono l’incanto di quegli anni vissuti e sbiadiscono mentre lotti con te stessa alla ricerca di un’identità, in una di quelle battaglie che prima o poi dovrai affrontare per ritrovarti o perderti per sempre.

Essere clown mi ha permesso di spezzare le catene dei sospiri, dei pugni chiusi e fermi, dei pensieri che attraversano il cielo e come grandine si scagliano al suolo.

Ho indossato un paio d’ali e. tenendo bene in mente dove lasciavo le mie radici, mi sono lanciata nel vuoto, un vuoto che andava verso l’alto, verso il punto di vista da cui non ho mai guardato.

Lentamente uscivo fuori da quel pozzo che mi logorava dentro, mi liberavo dalle mie paure e debolezze, dal continuo bisogno di attenzioni, dalla convinzione che aver sofferto nella vita mi dava di diritto un posto in prima fila, dalla speranza che negli altri avrei trovato quella parte di me che credevo perduta e che, per questo, mi faceva sentire incompleta.

Come un uccello, migravo alla ricerca di un posto che potesse offrirmi calore, che potesse rendermi quel clima mite e accogliente, tanto sognato dai viaggiatori stanchi e trasandati. Lì avrei riscoperto la fame, la chiara voglia di colmare il vuoto che sentivo dentro, il forte desiderio di nutrimento, così essenziale e necessario, così instancabile ed umano.

Non pensavo bastasse così poco per sentirsi sazi ed appagati. E facevo bene, in fondo anche gli uccelli afferrano la propria preda con tutta la forza che hanno in corpo, ma solo dopo averla scelta con dedizione e pazienza.

La mia preda non era visibile ad occhio nudo, non potevo afferrarla e portarla via, ma potevo battermi per essa, potevo meritarla se solo avessi voluto, potevo aprire le braccia, tendere le mani e lasciare che lei venisse da me, che in silenzio invadesse il mio corpo, penetrandomi nell’anima. Io avevo scelto l’amore, o forse lei aveva scelto me. Con la stessa dedizione, con la stessa pazienza.

Così iniziai il mio VIAGGIO NEI MEANDRI DEL CUORE. Ancora non sapevo cosa fosse il coraggio, me lo hanno insegnato gli occhi di tutti quei bimbi che ho incontrato lungo la mia strada, mi hanno guidato, mi hanno preso per mano. Nei loro occhi ho imparato che vivere non vuol dire soltanto respirare, che essere deboli vuol dire essere uomini, che il coraggio è la capacità di affrontare ciò che si può immaginare, che si può essere grandi pur restando bambini.

Il giorno in cui iniziò questo grande viaggio, era una di quelle mattine che non sembravano anticipare nulla d’importante, ma un clown avverte sempre la magia che si cela dietro il giorno che inizia. E’ il suo senso della vita.

E in questa continua ricerca, durata nove mesi, tra test, calcoli, numeri e somministrazioni…una cosa l’ho imparata di certo. Ho imparato che il colore preferito di Sasy è il giallo, che il latte non lo fa la mucca ma la sua nonna, che adora gli spaghetti al sugo e non gli piacciono le infermiere con la mascherina, che lui in realtà è un super eroe ed è fiero di mostrarmi, finalmente, il suo collo senza nessun cerottino…ho imparato che la sua mamma ha paura di volare.

Ogni tanto passeggia per le corsie, a volte accenna qualche sorriso e a volte no, vuole risposte che sa di non poter avere. Un giorno, però decide per un attimo di tornare donna, madre, di andare al di là del trucco di un clown che fino ad allora credeva “pagliaccio” e di vederci un volto nel quale cercare un sostegno, un abbraccio. Questa è la mia conquista, questo è ciò che ho trovato durante il viaggio nei meandri del cuore…forse per qualcuno sarà cosa di poca importanza….a me, però, piace pensare che nell’invisibile ho visto l’essenziale e nell’essenziale ho incontrato l’Amore.

Clown “Dottofessa” Luna al secolo D.ssa Valeria Paladino è nata in Sicilia, studia e lavora a Milano.

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