sabato 22 gennaio 2011

UN CLOWN IN OSPEDALE di Caramella

Per tanti anni a seguire, ho associato i sotterranei dell’ospedale con i corridoi di Auschwitz, i medici e gli infermieri con le loro facce bianche, agli aguzzini nazisti. Mi sembrava un lungo incubo, lì, all’ospedale Cardarelli di Campobasso.

Avevo 9 anni. Ricoverata per un’ernia inguinale, capii subito che dovevo fare affidamento su di me: un fratello più piccolo di due anni, mamma doveva stare con lui a casa, papà lavorava e veniva dal paese col pullman quando poteva.



Quel primo giorno fu memorabile, mi misero in una stanza con donne anziane. Ricordo esattamente i loro lamenti a intermittenza “mo me moro”, le loro facce bianche, ma non era questo che mi metteva paura. Sembravano piuttosto dei fantocci finti, raggomitolati nelle loro coperte bianche, intravedevo i loro capelli grigi, tenuti su da maldestri chignon che non si scioglievano più da mesi. Mi sembrava tutto surreale, destava la mia curiosità. Per fortuna la curiosità mi ha salvato in svariate situazioni della mia vita. La permanenza in quella stanza fu proprio breve: nel giro di un’ora, avevo il mio letto in una stanza con una ragazza grande e un mio compagno di scuola, dell’altra classe; trovavo comico il fatto che lui scappasse proprio al centro del letto, sotto il letto, per non farsi acchiappare dall’infermiera pronta per l’iniezione.

Catapultata in un teatrino grottesco, mi sembrava una battuta anche quel “un taglio e via” pronunciato dal medico curante qualche giorno prima quando mi visitò nel suo studio.
Il terribile, per me, venne dopo, quando mi portarono nei sotterranei per fare un prelievo di sangue, faceva freddo, avevo solo il pigiama, nessuno mi disse che forse era meglio indossare una maglia sopra. Stavo con l’infermiera e una signora che mi prese a ben volere, anche lei doveva fare il prelievo, meno male che c’era, era una presenza rassicurante. Facemmo dei giri che mi sembrarono interminabili, era tutto molto squallido, mura grattate, intonaco cadente, muffa e umidità, tubi a vista, luci al neon che conferivano ombre inquietanti a quelle figure bianche che si aggiravano veloci nelle due direzioni. Io mi sentivo un corpo, uno spessore, un calore e un colore, la signora ed io sembravamo gli unici esseri realmente viventi, tutto il resto era di un’alienazione fuori del normale.


L’infermiera che mi prelevò il sangue non so perché mi diede un pizzico sul braccio, prima di mettermi il laccio emostatico. E’ vivido ancora oggi ai miei occhi il livido. Mi sono sempre chiesta perché. Neanche me lo aveva detto, se me lo avesse preannunciato avrei capito, ero una bambina buona e comprensiva, intelligenza vivace, avevo comprensioni per tutti. Già quella la vissi come una violenza, e improvvisamente il teatrino grottesco si ribaltò. Ricacciai indietro le lacrime, guardai gli occhi della signora, cercò di accogliere la mia paura, e io cercai di ispessire il mio cuore. Fu un sollievo tornare sopra, e trovare un’altra presenza consolante nel dottore Lazzaroni, giovane, capelli neri, umano, e che mi ricordava una famosa marca di biscotti che si vendevano in quel periodo.

La sera consolavo una ragazza, Cristina, di Campobasso, che doveva operare l’appendice, vedeva la madre tutti i giorni, rimaneva sempre a piangere quando se ne andava. Lei era un po’ più grande di me, eppure mi inventai di stare alla finestra a contare le macchine che passavano, per farle passare il tempo. Forse le ero grata per quelle lacrime, perché piangeva anche le mie.
La presenza di mia madre la ricordo per tre giorni in tutto, prima e dopo l’intervento. Quando mi sono svegliata, in camera, nessuno aveva detto a mio padre che non doveva farmi ridere, perché mi tiravano i punti. Il suo viso avvolto in una nebbia, mi dava più dolore che altro. Mi sentivo tirare e anche questo nessuno me lo aveva detto. La notte dell’intervento avevo una sete pazzesca, cercai di fare la furba, allungai il braccio per cercare il bicchiere che rotolò rovinosamente a terra, per fortuna senza rompersi. Mi sentii vergognosamente messa a nudo, si svegliarono tutti, io ebbi la sensazione di essere stata scoperta a rubare.

In tutto, sono stata lì un tempo incredibilmente lungo per un’operazione così stupida- 14 giorni.
Solo da pochi giorni ho scoperto che quel pizzico sul braccio era una Prova di coagulabilità o di fragilità vascolare.

Oggi, andando in ospedale come clown, quello che cerco è anche rassicurare la mia bambina, in quegli occhi impauriti per piccoli problemi o per situazioni più gravi, cerco di scaldare con gli occhi e con un sorriso leggero e accogliente. Ci sto provando, come una caramella, a dare un po’ di sollievo.

Clown Caramella

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