venerdì 1 ottobre 2010

PER UN'ECOLOGIA DELLE RELAZIONI

L’ecologia profonda, quella di cui erano capaci gli indiani d’America, considera la Terra sacra, secondo un’unità che racchiude armonicamente le creature terrestri, il cielo, l’uomo e la donna.

Non una massa statica, ma tutta materia pulsante, battito eterno da cui proveniamo e a cui ritorneremo, energia vitale che si declina tra nascite e morti.

Credere nella validità di questo approccio significa anche impegnarsi per un’ecologia delle relazioni: non dobbiamo usare metodi invasivi e violenti nei confronti della terra e delle creature terrestri, e allo stesso modo non dobbiamo usare parole o gesti violenti nei confronti degli altri esseri umani. E’ intuitivo ma non è di facile attuazione.

La Terra non dà motivo di odio o risentimento, forse neanche quando con un terremoto distrugge tutto. Gli esseri umani ci danno motivi di rabbia, rancore, dolore, delusione pressoché continui, talvolta proprio le persone che più ci stanno a cuore, con cui magari condividiamo un impegno grande, un ideale, un percorso comune. Nei primi tempi di una relazione significativa (quale può essere anche quella all’interno di un’associazione) in genere si cerca di dare maggior peso a tutto ciò che unisce: divergenze, opposizioni e contrasti vengono lasciati sullo sfondo, anche temuti perché possono incubare discussioni e lacerazioni.

Ma questa è una situazione innaturale, non affine con la vita: nelle relazioni che funzionano, i conflitti arrivano sempre, e non si ha paura di affrontarli: “Il conflitto appartiene all’area della competenza relazionale, mentre la violenza appartiene all’area della distruzione, cioè dell’eliminazione relazionale. E’ pertanto la relazione e non la bontà –come nel senso comune si è spesso portati a credere- la misura discriminante fra conflitto e violenza” (Daniele Novara, Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti).

Una relazione è buona se consente l’emergere del conflitto, mentre è cattiva se impedisce questo processo, imponendo una “pace” solo virtuale, pietra tombale per la relazione. Riconoscendo la divergenza, anche forte, con l’altro, e identificandola, nominandola all’altro e a me, io riconosco la relazione e riconosco l’altro come persona. Al contrario, “la violenza appare un’azione, più o meno premeditata, volta a sospendere la relazione” (D.N., cit.).

Talvolta, infatti, non sono i gesti compiuti o le parole dette ad esacerbare gli animi, ma il non detto, il taciuto, l’omesso. C’è una violenza dei comportamenti gentili quando questi non sono genuini e autentici ma servono a dissimulare i propri vissuti e a squalificare la relazione. C’è una violenza di chi lascia che si espongano gli altri per riservarsi la possibilità di allearsi con il vincente. E’ vitale, dunque, accettare la presenza del conflitto, e gestirlo in maniera costruttiva, non evacuativa, impulsiva o, appunto, dichiaratamente violenta.
Le parole e i gesti, espressi oppure omessi, hanno peso e forza, possono inquinare o pulire, offendere o capire, distruggere o costruire ponti.

E il dissenso? La critica, anche forte, il conflitto sulle posizioni?
1. Il dissenso va riconosciuto. Devo sentire l’emozione che mi abita, in quel preciso momento, o cosa mi abitava prima: avevo già motivi di dispiacere, di attenzione rancorosa? Come mi sento quando l’altro dice/non dice questo o quello? Le risposte mi aiutano a capire in parte se e perché reagirò in una data maniera. A volte non tolleriamo aspetti di una relazione, perché questa, tacitamente, ci ricorda altri momenti, situazioni analoghe, paure sedimentate a cui non avevamo saputo (potuto) far fronte: il rifiuto, il non amore, il non sentirsi ”parte di”. Vissuti squisitamente umani, che veicolano spesso una memoria arcaica delle relazioni impresse nel nostro corpo, caleidoscopio vibrante, fin dai primi mesi di vita. Ognuno di noi ha questo nucleo antico, come il tronco dell’albero ha il primo cerchio all’interno. E’ importante averne consapevolezza. Può risultare difficile identificare il proprio dissenso quando abbiamo imparato a sopprimere le nostre reazioni, ad accordarvi poca o nessuna fiducia, abdicando in favore di qualcuno sentito come più capace, cedendo il timone e a volte, purtroppo, le vele. Può succedere anche che non riusciamo a vivere senza guerreggiare, perché solo nel perenne scontro con gli altri e nella lotta non sentiamo impotenza e fragilità.


2. Il dissenso va espresso. Non esprimere il dissenso può celare la paura di essere emarginati, etichettati, o assimilati a questo o a quello. E’ apparentemente comodo, non suscita divergenze nell’immediato, ma è ben più insidioso: tra le altre cose, vi è un attacco al proprio sé. Ogni qual volta rinunciamo a dire esattamente la nostra opinione e il nostro vissuto, dissimulandolo intenzionalmente per paura che emerga, un po’ della nostra autostima e il senso del nostro valore si opacizza. E’ come dirsi: non meriterei l’amore e la benevola considerazione se dicessi apertamente quello che sento. Il risultato, tragico se adottato come modus vivendi, è che la persona perde energia e perde contatto con il suo centro, sentito da se stessa come mancante di valore.

3. Il dissenso va detto in maniera ecologica: può essere utile allenarsi su questi passaggi:

• Cosa vedo dell’altro? (COMPORTAMENTI VISIBILI, ad es.: l’altro mi guarda negli occhi, siede di fianco a me, parla guardando altrove…)
• Cosa sento prima, durante e dopo questo scambio comunicativo e relazionale, qui ed ora? (SENSAZIONI del mio corpo)
• Cosa provo? (EMOZIONI)
• Cosa penso, ricordo, immagino (lì ed allora).

Nella discussione, il feedback che darò all’altro sarà, ad es.: “Mentre tu mi parli, guardando altrove, io mi sento avvampare e provo rabbia” (dentro di me, inoltre, penso a quella volta in cui credevo che mio padre non mi ascoltasse veramente).

Oppure: “Mentre tu mi parli, guardando altrove, io sento che mi si stringe lo stomaco e provo rammarico” (dentro di me focalizzo che ero dispiaciuto ritenendo mio padre incapace di mantenere un contatto oculare con me).

Se la persona dà un feedback del genere all’altro, si assume la piena responsabilità dei propri vissuti: “Sento che io” e non “Sento che tu”; inoltre, dicendo, a se stesso e/o all’altro “credo, ritengo, penso, immagino”, relativizzo la percezione che ho dell’altro, anziché dirmi “sicuro”, in maniera assolutizzante, dello stato dell’altro.

Costruire relazioni ecologiche significa familiarizzare con tutte le emozioni, accoglierle e dar loro diritto di asilo. E poi recuperare la tenerezza per sé (imparando a perdonarci), per gli altri (accettando il conflitto e il limite), per la Terra (ascoltando quello che sempre ci dice).

di Carmela Longo
Città di Eufemia, Nodo di economia solidale

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