venerdì 16 aprile 2010

Angelo Moretti, il fondatore del centro per disabili “E’ più bello insieme”, si racconta

Posso parlare di me solo attraverso le persone che ho incontrato. Perché chi sono oggi lo devo a loro.

Posso parlare di me solo attraverso le persone che ho incontrato. Perché chi sono oggi lo devo a loro. E sono tante. Ovviamente si parte dall’insieme dei miei genitori (attenzione sono due, ma è nell’ “insieme” che sono stati unici!), che mi hanno fornito di bagagli validi per tutto il viaggio: amore smisurato, incondizionato, fiducia, apertura al mondo e tre sorelle eccezionali, socie con me nell’esperienza di quell’amore unico ricevuto fin dall’infanzia.

Un po’ più su, c’è un nonno-eroe, nella mia adolescenza, l’incarnazione di un’epopea manzoniana, dove la Provvidenza divina agiva di pari passo con le scelte umane, nonno Michele, dodici figli a carico, una passione per tutto ciò che per lui era arte, per sua moglie, per le sue rose del giardino, come per la sua vecchia Audi, la sua casa a Raino, Itri, magica come un castello delle favole, e le sue risate di gioia per tutto ciò che era vita, il suo ribrezzo per tutto ciò che era menzogna. Quando se ne è andato, a novantadue anni, sembrava avere ancora molti sogni nel cassetto, come un giovane all’università.

In parrocchia, mi assegnarono il mio primo maestro di vita, Mauro. Un ragazzo come me, ma, sofferente di leucemia, costretto a letto da oltre un anno.

A quindici anni ero pronto, volevo investire quel capitale in qualcosa, meglio in qualcuno. Non volevo avere quella fortune solo per me troppo a lungo, della mia fede mi bastava quel comandamento: ama il prossimo tuo come te stesso. Solo dopo ho scoperto la bellezza umana di come te stesso. In parrocchia, mi assegnarono il mio primo maestro di vita, Mauro. Un ragazzo come me, ma, sofferente di leucemia, costretto a letto da oltre un anno. Bisognava ripetere con lui il greco del quarto ginnasio.

Ma Mauro voleva fare altro: camminare, correre, giocare a pallone, ma era lì paziente a sopportare un ragazzo che gli ripeteva il greco, come un saggio che ascolta il discepolo e pensa oltre. La sua morte mi aprì gli occhi: era stato lui, tutti i pomeriggi, a spegnere la televisione per sorbirsi la mia amicizia.

L’Albania mi presentò il mio carisma, quello di San Vincenzo de’Paoli, e ci diede l’idea di creare un gruppo di volontari a Benevento.

Nel 1996 sbarco a Durazzo, per un altro incontro che mi avrebbe cambiato la vita: l’Albania. Un nome su tutti: Fatyon, mi insegnò la tenerezza. Un bambino di scarsi tre anni, portato nell’arena dei bambini di Masterko. Sporco dal naso ai denti, con grande distrazione, nella confusione più totale mi inginocchio per dargli un pennarello, lui mi fissa con due fanali azzurri, allarga il sorriso e mi fa una carezza che dentro di me dura ancora. Non riuscii più a rialzarmi, restai a fissarlo penso un quindici minuti. Portato dalla violenza in mezzo al gruppo dei volontari, era il più grande dei volontari mai conosciuti.

Poi, un altro bambino, di cui ancora non conosco il nome, mi fece una lezione di quasi un’ora sulla comunicazione non verbale. Aveva sei anni, credo, non esita un attimo, sebbene fosse la prima volta che l’incontravo: inizia un racconto infinito in Albanese, una lingua così difficile che nonostante sia ritornato otto volte, non l’ho ancora imparata, che riguardava una sua cicatrice sulla testa, e mentre parlava rideva, fingeva di tuffarsi nel fiume, indicava. Tutto come se io capissi perfettamente quello che diceva, poi capii: non serviva che capissi, ma che lo ascoltassi.

L’Albania mi presentò il mio carisma, quello di San Vincenzo de’Paoli, e ci diede l’idea di creare un gruppo di volontari a Benevento. Poi vennero e sono tuttora presenti nella mia vita una serie infinita di altri maestri. Uno di questi mi diede, tra l’altro, l’idea di mettere su il centro “è più bello insieme”, nel 2001. Mi sono laureato in giurisprudenza nello stesso 2001, nel 2005 una madre in Albania mi suggerii l’idea di iscrivermi in Psicologia, l’ho fatto.

Progettista sociale, come un “agitatore sociale”, solo che si fa con calma e per progetti.

Il mio mestiere di oggi mi piace, si chiama “progettista sociale”, è nuovo e man mano che vado avanti prende forma e significato. È come un “agitatore sociale”, solo che si fa con calma e per progetti. Sono convinto che, se le comunità dessero importanza alla costruzione delle infrastrutture relazionali come la si da a oggi a quelle materiali, davvero il nostro sviluppo sarebbe eco, equo e solidale. Le politiche sociali migliori, a mio parere, sono quelle che partono dal basso, che non progettano la città e lasciano un bagno per i disabili, metafora dell’attenzione spesso rivolta alle persone con disagio, ma partono dall’inclusione sociale delle persone fragili per mettere in gioco tutti. Non sono il resto della torta, ma gli ingredienti stessi.

Con il centro è più bello insieme, sperimentiamo ogni giorno questo tentativo di nuovo sviluppo della società, liberando i ragazzi dagli angoli in cui sono stati messi, usando il centro come trampolino verso l’integrazione vera e propria, sul territorio, dove quelli che da noi sono utenti tornano ad essere risorsa della società. Per il loro carico di umanità e sensibilità, spesso merce rarissima.

Spero sempre che un incontro, un libro, un film, un quadro, mi aprano ad una nuova crisi.

Quanto alla mia vita privata, io e mia moglie ci troviamo dopo sei anni di matrimonio ad attendere Sara Oliva, la nostra settima figlia… Il mio unico hobby è organizzare viaggi con la mia famiglia. In questi stessi anni di matrimonio, grazie ad un’organizzazione spartana, abbiamo visto oltre dieci città europee, passeggiando in lungo e largo, visitando musei, respirando culture diverse, anche solo per tre giorni. È un’esperienza arricchente, perché Van Gogh a Roma non è lo stesso che vedi nel chiaroscuro di Amsterdam o sul lungo Senna del quay d’Orsay.

In quei posti, i quadri respirano la stessa aria che respiri tu quando sei fuori dal museo, ed il museo non è altro che la stazione di servizio ove appendere quell’emozione. La lettura, invece, è una mia necessità.

Tra gli incontri che mi hanno cambiato, ci sono decine e decine di libri. Leggo per rabbia, per protesta, per amore verso un personaggio (il mio genere preferito sono le biografie), per capire e capirmi, per guardare con occhi nuovi. Spero sempre che un incontro, un libro, un film, un quadro, mi aprano ad una nuova crisi. Credo fortemente. Non solo in Dio, ma anche in tutto ciò che Egli ha creato, in cui vive la speranza.

(Angelo Moretti - da bmagazine del febbraio 2009)

P.S. La Comunità RNCD, pubblica questo "ritratto" di Angelo Moretti come segno di "SOLIDARIETA'!"

http://www.radiocitta.net/newsrc/page/visPrimo.php?idNews=22811

http://www.campaniapress.com/?p=5532

http://www.campaniapress.com/?p=5549

Nessun commento: